Che valore ha una email come prova della responsabilità penale di un dipendente pubblico?

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La Cassazione ha ritenuta valida la prova cartacea di una email, come documentata dalla polizia giudiziaria, anziché l’originale informatico, mai raccolto, ai fini dell’attribuzione di penale responsabilità.

Inoltre il Supremo Collegio ha anche stabilito che  la copia cartacea di una email, ancorchè non possa qualificarsi  tecnicamente come “corpo di reato”, ben possa costituire prova dell’esistenza dello stesso.

In una sentenza di fine agosto la Suprema Corte ha confermato la condanna per il  reato di falsificazione di comunicazioni telematiche di cui all’art.617 sexies cod.pen, a carico di un dirigente di un ente locale che aveva falsificato una ricevuta di conferma in occasione di un concorso pubblico, determinando così l’esclusione dalla gara di un  concorrente.

L’articolo 6 della legge n. 547 del 23/12/1993 ha introdotto l’art.617 sexies cod.pen. in tema di «falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di informazioni informatiche o telematiche», che recita: «Chiunque al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di arrecare ad altri un danno, forma falsamente ovvero altera o sopprime, in tutto o in parte, il contenuto, anche occasionalmente intercettato, di taluna della comunicazioni relative ad un sistema informatico o telematico o intercorrenti fra più sistemi, è punito, qualora ne faccia uso o lasci che altri ne facciano uso, con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è della reclusione da uno a cinque anni nei casi previsti dal quarto comma dell’articolo 617 quater». Tale reato è inserito nella sezione V (delitti contro l’inviolabilità dei segreti), del capo III (delitti contro la libertà individuale), del titolo XII (delitti contro la persona) del libro secondo del codice penale. La condotta del delitto de quo consiste nel formare, falsamente, in tutto o in parte, il testo di una comunicazione informatica o telematica, ovvero nell’alterare, sopprimere, in tutto o in parte, il contenuto di una comunicazione informatica o telematica vera, anche se solo occasionalmente intercettata, allo scopo di procurarsi un vantaggio o di arrecare ad altri un danno. Il reato, pur inserito nel corpo della sezione dedicata ai delitti contro l’inviolabilità dei segreti, delinea una particolare figura di falso, caratterizzata in ragione del suo oggetto. Il dolo richiesto per l’ipotesi delittuosa in esame è specifico e consiste infatti nella coscienza e volontà di procurarsi direttamente o indirettamente un vantaggio, non necessariamente di carattere patrimoniale, o di recare ad altri un danno. Deve poi essere oggettivamente riscontrabile, in conseguenza dell’azione del soggetto agente, la materiale alterazione o soppressione dell’informazione attinta. Occorre infine che dell’alterazione compiuta l’agente abbia fatto uso o abbia semplicemente tollerato un uso ad opera di altri; deve quindi esservi stata consapevolezza della diffusione esterna di una rappresentazione informativa non genuina o non corrispondente a verità.

Il ricorrente aveva sollecitato invano, nel merito, una perizia sui computer in grado di dirimere la controversia sulla difformità tra email cartacea e originale informatico, insistendo a più riprese, sulla mancanza del «corpo del reato»(che avrebbe potuto essere solo un documento informatico) e sulla mancata ispezione tecnica e verifica peritale dei personal computer sia della denunciante sia della denunciata, senza la quale non avrebbe potuto ritrarsi alcuna certezza circa la pretesa falsificazione informatica.

Segnatamente, la ricorrente  aveva criticato l’affermazione della sentenza di secondo grado secondo la quale poiché la falsa attestazione dell’avvenuta lettura della mail era un documento elettronico e pertanto immateriale era evidente che la prova poteva essere desunta solo dal documento cartaceo (ossia la stampata).

La Cassazione ha avallato invece la ricostruzione della pubblica accusa, pur riconoscendo che la copia cartacea non potesse essere considerata corpo di reato e che vi fosse “un’oggettiva improprietà della decisione impugnata”.

@fulviosarzana