Prima sentenza della Suprema Corte di Cassazione in tema di whistleblowing, dopo l’approvazione della recente legge 179 del 2017.
La Cassazione in sede penale, con una sentenza depositata a fine febbraio, è intervenuta sulla figura, recentemente modificata dal legislatore del whistleblower.
Il whistleblower (tradotto alla lettera, “colui che fischia”) è il lavoratore dipendente, tanto del settore pubblico quanto del settore privato, che segnala reati o irregolarità dei quali viene a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro.
Il whistleblowing è stato introdotto in Italia nell’ambito del pubblico impiego, con la legge n. 190 del 2012: “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.
Precisamente l’art. 1, comma 51, legge n. 190/2012, in relazione al D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” aveva introdotto, dopo l’articolo 54 una nuova disposizione, l’articolo 54-bis, intitolato “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”.
La norma è stata poi modificata con l’introduzione della legge 179 del 2017.
Quest’ultima norma è intervenuta nuovamente sull’articolo 54 bis del testo sul pubblico impiego, stabilendo che il dipendente che segnala al responsabile della prevenzione della corruzione dell’ente o al o ancora all’autorità giudiziaria ordinaria o contabile le condotte illecite o di abuso di cui sia venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto di lavoro, non possa essere – per motivi collegati alla segnalazione – soggetto a sanzioni, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto a altre misure organizzative che abbiano un effetto negativo sulle condizioni di lavoro.
La stessa norma ha previsto che non possa essere rivelata l’identità del dipendente che segnala atti discriminatori e, nell’ambito del procedimento penale, la segnalazione sarà coperta nei modi e nei termini di cui all’articolo 329 del codice di procedura penale
La segnalazione e’ sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni.
La Cassazione, che si è occupata di un fatto avvenuto prima dell’entrata in vigore della recente riforma ha fatto però espresso riferimento anche alla nuova norma, stabilendo che l’anonimato del whistleblower è assicurato ( in maniera parziale peraltro) in ambito disciplinare, ma non in ambito penale.
Nel settore penale, anche alla luce della recentissima legge 179 del 2017, valgono le regole ordinarie sul segreto previste dall’art 329 del Codice di procedura penale, il che significa –di fatto- che l’anonimato non esista, o comunque sia solo temporaneo.
La Cassazione ha quindi avallato la tesi secondo la quale l’anonimato di chi effettua la segnalazione è previsto solo in ambito disciplinare, ed anche in questo caso occorrerà comunque che la successiva ed eventuale contestazione non si basi esclusivamente sulla segnalazione stessa.
Perchè, in quest’ultimo caso, l’identità del “soffiatore”, potrà essere rivelata quando sia assolutamente necessaria per la difesa dell’accusato.
Ne deriva però, rileva ancora il Supremo Collegio, che, in caso di utilizzo della segnalazione in ambito penale, non esista spazio per l’anonimato.