Diversi organi di stampa hanno dato notizia nei giorni scorsi del sequestro del portale Crypto.trade che effettuava trading sulle operazioni di scambio con criptovaluta.
Come è andata veramente, e perché il sequestro ha scatenato una ridda di polemiche?
Addirittura alcuni, nella maggior parte dei casi senza aver letto il provvedimento, e senza considerare la complessità di un procedimento penale hanno gridato alle “fake news”.
Peraltro anche NOVA ha dato conto del fatto con un commento che, personalmente, mi ha destato molte perplessità.
Vediamo allora di fare chiarezza su quello che è successo con il decreto di sequestro operato dal GIP di Roma.
Il GIP ha disposto il sequestro preventivo del sito Crypto.trade a seguito di una ( o più segnalazioni su diversi siti) segnalazione della CONSOB, su una attività in grado di violare le disposizioni sul testo unico di finanza (TUF) e, particolare non indifferente, ad una successiva complessa attività di indagine del nucleo speciale di polizia valutaria di Roma, durata 6 mesi.
La CONSOB aveva con propria delibera tracciato in relazione al sito una attività riconducibile ad una vendita piramidale che nel nostro ordinamento è proibita dalla legge 17 agosto 2005, n 173.
Il GIP, mostrando un proprio convincimento rispetto alla CONSOB, ha però sequestrato il sito non per la vendita piramidale ma per abusivismo finanziario.
La diversità sta anche nell’oggetto reale del contendere, perché la CONSOB non aveva considerato l’attività legata alle criptovalute non menzionandole neppure, mentre il Giudice nel motivare il sequestro riferisce espressamente che “il guadagno deriva dal trading sulle operazioni di scambio con criptovaluta”.
Frase e motivazione NON presenti nei provvedimenti CONSOB.
In pratica l’organo giudicante non ha aderito all’impostazione fornita dalla CONSOB sulle vendite piramidali, perchè altrimenti avrebbe dovuto procedere per truffa o per la fattispecie specifica prevista dall’art 7 della legge 17 agosto 2005, n 173, che prevede
(Sanzioni)
- Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque promuove o realizza le attività o le strutture di vendita o le operazioni di cui all’articolo 5, anche promuovendo iniziative di carattere collettivo o inducendo uno o più soggetti ad aderire, associarsi o affiliarsi alle organizzazioni od operazioni di cui al medesimo articolo, è punito con l’arresto da sei mesi ad un anno o con l’ammenda da 100.000 euro a 600.000 euro.
- Per le violazioni di cui al comma 1 si applica la sanzione accessoria della pubblicazione del provvedimento con le modalità di cui all’articolo 36 del codice penale e della sua comunicazione alle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale.
- All’impresa che non rispetti le disposizioni di cui all’articolo 4, commi 2, 3, 5, 6 e 9, si applica una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.500 euro a 5.000 euro.
A questo punto sorge il dubbio i Bitcoin sono prodotti finanziari? E a che cosa si riferiva il Giudice che non ha affrontato il tema dello schema Ponzi riferentesi al sito, ma quello dell’abusivismo finanziario?.
Secondo la maggior parte dei commentatori le criptovalute non sarebbero prodotti finanziari e cosi stabilirebbero le norme sull’antiriciclaggio recentemente aggiornate ( d legislativo 231 del 2007).
Sembra pensarla in questo modo anche l’Unione Europea che ha proposto nella quarta direttiva antiriciclaggio l’inserimento di una definizione di cryptomoneta più simile ad un concetto di valuta che a quello di un prodotto finanziario.
In questa prospettiva non avrebbe senso il provvedimento del GIP di Roma, se riferito alle Criptovalute.
Ma la giurisprudenza la pensa diversamente.
Il Tribunale di Verona ha risolto il caso di investitori che avevano comprato bitcoin versando euro senza però riuscire a vedersi aperto il cosiddetto wallet di moneta virtuale.
Il giudice ha qualificato le operazioni di scambio «come attività professionale di prestazioni di servizi a titolo oneroso, svolta in favore di consumatori». Trattandosi di servizi finanziari conclusi a distanza nei confronti di un consumatore, il Tribunale ha ritenuto applicabile il Codice del consumo e i previsti obblighi di informativa nei confronti del cliente, oltre all’esistenza di un documento contrattuale in forma scritta. Il giudice ha poi suggerito di inquadrare la fattispecie nell’«offerta al pubblico di prodotti finanziari» (descritta dall’articolo 1, lettere t) e u), del Dlgs 58/1998) ovvero a quella dei «servizi e attività di investimento» in «valori mobiliari» (ex articolo 1-bis, comma primo, lettere c) e d), nonché comma 5, lettera a), del Dlgs 58/1998), avendosi riguardo a negoziazione per conto proprio di «qualsiasi altro titolo normalmente negoziato che permette di acquistare o di vendere i valori mobiliari indicati alle precedenti lettere» (ossia azioni e altri titoli equivalenti di società, di partnership eccetera) ovvero di «qualsiasi altro titolo che comporta un regolamento in contanti determinato con riferimento ai valori mobiliari indicati alle precedenti lettere, a valute, a tassi di interesse, a rendimenti, a merci, a indici o a misure».
Insomma gli spunti per una organica regolamentazione della materia non sembrano mancare.
Di tal genere di operazioni si è occupata di recente – in termini autorevoli e convincenti – l’Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 72/E, prendendo le mosse dalla nota sentenza 22.10.2015 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Causa C-264/14). Per quanto qui interessa, tanto la CGCE quanto l’Agenzia delle Entrate italiana definiscono le operazioni in questione (ciò è a dire “cambio di valuta tradizionale contro unità della valuta virtuale bitcoin e viceversa, effettuate a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza tra il prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita praticato dall’operatore ai propri clienti”) come “prestazioni di servizio a titolo oneroso” (sub specie di “intermediazioni nell’acquisto e vendita di bitcoin“), che – in quanto “…relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio” – sono riconducibili all’art.135, paragrafo I, lettera e), della direttiva 2006/112/CE, onde poi trarne l’inclusione nelle prestazioni esenti ex art. 10, comma primo, n.3), dpr n.633/1972 (non assoggettabilità ad IVA e, per converso, assoggettabilità ad IRES ed IRAP dei margini di profitto generati).
Il provvedimento del Giudice di Roma si riferiva a rendimenti molto elevati, ma questo non esclude il fatto che tali rendimenti fossero frutto di guadagno sul trading di criptovalute e, come è noto i bitcoin consentono investimenti a rischio, nella misura in cui, il rischio sta nella volatilità. Ci sono giornate in cui il bitcoin può fare più o meno 10 o 20%
Quindi si può ragionevolmente pensare che il Giudice abbia discostarsi da quello che aveva fatto la CONSOB, qualificando le operazioni di scambio con criptovaluta come operazioni finanziarie, soffermandosi proprio sullo scambio con criptovaluta e non sulla presunta truffa piramidale.
Dunque è assolutamente falso che il Giudice abbia voluto sanzionare lo SCAM di Cryptotrade ed è assolutamente falso che il Giudice non abbia adottato lo scambio con criptovalue come motivo del sequestro, senza nemmeno menzionare le criptovalute,, come qualcuno ha addirittura scritto.
Perché può essere accaduto tutto ciò?
Bisogna considerare che tra la delibera della Consob e il provvedimento del Giudice sono passati 6 mesi.
In questi 6 mesi sono accadute diverse cose, tra le quali le complesse indagini operate dal nucleo speciale di polizia valutaria che si sono condensate in una informativa di PG del 12 dicembre 2017, di cui nessuno evidentemente si è interessato, nonchè la presentazione di diversi esposti da parte di alcune associazioni di consumatori.
Può darsi che questi eventi abbiano inciso sulla diversa valutazione ad opera del Giudice e sull’interesse di quest’ultimo sullo scambio con criptovalute e sulla collocazione di queste attività nell’orbita dei prodotti finanziari.