La videosorveglianza sul luogo di lavoro è lecita ma un controllo effettivo e generalizzato da parte del direttore del punto vendita ove sono installate le telecamere, o di altro soggetto, cui sia conferito potere gerarchico e disciplinare sui lavoratori, non è ammessa.
Inoltre, i nominativi delle persone autorizzate devono essere portati a conoscenza dei lavoratori.
E’ quanto ha stabilito il Consiglio di Stato, con sentenza del 5 giugno 2015 che farà certamente discutere, anche alla luce delle modifiche alla disciplina del controllo a distanza dei lavoratori introdotta ( ma non ancora attuata) dal Job’s act.
La vicenda ha riguardato un supermercato di un Comune lombardo, che aveva installato un impianto di videosorveglianza regolarmente autorizzato nel luglio 2012 dalla Direzione territoriale del lavoro al fine di contrastare furti e taccheggi, ma che era stato oggetto di contestazione da parte degli esponenti delle organizzazioni sindacali.
I rappresentanti dei lavoratori avevano proposto ricorso gerarchico innanzi al Ministero del lavoro, mentre la proprietà del Supermercato si era rivolta al TAR del Capoluogo Lombardo, che ne aveva accolto il ricorso.
Le sigle sindacali avevano poi fatto ricorso al Consiglio di Stato.
Il Supremo Organo di Giustizia Amministrativa ha stabilito che “è realtà innegabile che con il mezzo della videosorveglianza si possano non solo contrastare i taccheggi e le rapine (in corrispondenza ad una effettiva “esigenza organizzativa e produttiva” ), ma anche, benchè non intenzionalmente, trattare dati personali. La voce e l’immagine delle persone riprese non possono infatti non considerarsi informazioni riferite alle persone stesse, in base alla normativa sia nazionale (d.lgs. n. 196 del 2003, cit.) che comunitaria (Direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995; cfr. anche Corte giust. UE, IV, 11 dicembre 2014, causa C – 212/13, secondo cui l’art. 3, par. 2, secondo trattino, della direttiva 95/46/CE, sulla tutela delle persone fisiche riguardo al trattamento dei dati personali e alla libera circolazione di tali dati, va interpretato nel senso che l’utilizzo di un sistema di videocamera, che porta a una registrazione video delle persone immagazzinata in un dispositivo di registrazione continua quale un disco duro, installato da una persona fisica sulla sua abitazione familiare per proteggere i beni, la salute e la vita dei proprietari, e che sorveglia parimenti lo spazio pubblico, non costituisce un trattamento dei dati, effettuato per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale o domestico ai sensi di quella disposizione).”
Secondo i Giudici di Palazzo Spada dunque “ La questione critica, non è quella del posizionamento effettivo delle telecamere (senza il quale il fine di contrasto di taccheggi e rapine sarebbe indebitamente menomato), ma quello delle modalità della relativa utilizzazione,, di essenziale rilievo al fine di rispettare il precetto generale dell’art. 4, primo comma” ( dello Statuto dei Lavoratori n.d.r.) .
La circostanza di fatto che, per lecite finalità, il Direttore del punto vendita avesse costantemente, dal proprio ufficio, diretta visione di vaste aree della struttura commerciale, concretizzava però,, oggettivamente, anche i presupposti della tipologia di controllo vietata dalla legge sull’attività del personale, anche oltre le intenzioni del dirigente (fermo restando – a riprova dell’impraticabilità della scelta, sostenuta dalla parte appellante – che il precluso utilizzo delle immagini registrate a fini disciplinari, ove dalle immagini in questione fossero emersi comportamenti indebiti dei lavoratori, avrebbe comunque comportato una violazione dei doveri del dirigente stesso).
Insomma, secondo i Giudici Amministrativi, si alle telecamere in azienda, no a un controllo generalizzato e costante delle attività del dipendente compiuta dal soggetto preposto al controllo disciplinare del lavoratore.