Sanzioni amministrative privacy: interviene la Cassazione

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Il principio del ne bis in idem tra sanzioni amministrative in materia di trattamento dei dati personali non si applica.

Inoltre sono infondate la questione di legittimità costituzionale relativa all’introduzione  normativa per via di urgenza di alcune fattispecie amministrative previste dal previgente codice privacy e quella relativa alla stessa rilevanza costituzionale del principio del ne bis in idem in materia di sanzioni amministrative.

E’ questo il succo di una ordinanza di rigetto ( che contiene anche altri importanti conclusioni)   molto articolata della Suprema Corte di Cassazione in materia di privacy dei primi di settembre 2020.

La Corte ha accolto i ricorsi incidentali del Garante per la protezione dei dati personali italiano rigettando il ricorso principale di un operatore del settore postale e di telemarketing.

Particolarmente interessanti le argomentazioni adottate dalla Corte per negare la rilevanza e la manifesta fondatezza delle due questioni di costituzionalità relative al Codice Privacy.

In particolare la Corte ha ritenuto sotto il profilo della necessità ed urgenza di una normativa sanzionatoria in materia di illeciti da trattamento dei dati personali che gli “inasprimenti sanzionatori che riguardavano la disciplina del trattamento di dati personali in contesti di abuso di banche dati a fini di promozione commerciale e di telemarketing si presentavano come necessari, proprio in ragione della condizione di oligopolio di alcune aziende nella raccolta e nel trattamento, senza consenso degli interessati, di dati acquisiti presso archivi pubblici o di pubblico dominio”.

mentre, in materia di ne bis in idem la Corte ha optato per non sollevare la questione di costituzionalità con queste motivazioni:

“La seconda questione di legittimità investe, attraverso il richiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (a partire dalla sentenza del 2014 Grande Stevens c. Italia), la censura di incostituzionalità dell’art. 164-bis codice privacy per violazione del principio del ne bis in idem, derivabile dal protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La ricorrente lamenta come tramite l’art. 164-bis “le stesse identiche condotte che abbiano concretato la violazione delle norme presupposto (nel caso di specie l’omessa informativa ex art. 161 e il trattamento senza consenso ex art. 162, comma 2-bis) vengono dall’art. 164-bis, comma 2 sanzionate un’altra volta, soltanto perché a una violazione si è accompagnata l’altra, con evidente inosservanza del principio generale del ne bis in idem. La censura è manifestamente inammissibile, per evidente difetto di rilevanza: il Tribunale, optando per una lettura complessiva del sistema e del rapporto tra le due norme, ha escluso l’applicazione della sanzione prevista per l’articolo 162, comma 2-bis, sulla base di un argomento di assorbimento di essa nella fattispecie più grave di cui all’art. 164-bis, così svuotando di interesse la proposizione della questione di legittimità. La censura di illegittimità costituzionale, comunque, è manifestamente infondata in quanto la questione – come rimarca il Procuratore Generale nelle sue conclusioni scritte – “è del tutto eccentrica rispetto a quelli che sono i criteri che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha elaborato per evitare una duplicazione sanzionatoria che abbia riguardo a ipotesi punibili al contempo sul piano amministrativo e su quello penale, in ciò consistendo la tematica del ne bis in idem convenzionale, laddove nel caso in esame non vi è traccia di applicazione di sanzioni penali né tantomeno di avvio parallelo di procedimenti penali per i medesimi fatti”, laddove la censura posta dal ricorso è piuttosto quella dell’utilizzo di criteri (assorbimento, consunzione, specialità), che evitano l’applicazione cumulativa di sanzioni del medesimo tipo – nel caso in esame amministrative – per un medesimo fatto”.

Va ricordato in ogni caso che oggi le disposizioni richiamate  dalla Suprema Corte di Cassazione sono state abrogate e sostituite dagli art 83 del regolamento generale privacy (GDPR) e dall’art 166 del novellato Codice per la protezione dei dati personali.

@fulviosarzana