]*di Fulvio Sarzana di S.Ippolito, Avvocato.
Quando può applicarsi il carcere all’attività giornalistica?
Il tema è tra i più spinosi, anche per i richiami all’Italia della CEDU.
La Cassazione opera una sorta di decalogo in una recentissima sentenza.
I casi riguardano in particolare i “discorsi d’odio e quelli che istighino alla violenza, quando veicolanti o veicolati da messaggi diffamatori. Le altre ipotesi attengono alle «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi».
Quando l’attività di informazione conduca a trasmettere informazioni di tal fatta — sostiene la Corte — essa non costituisce il “cane da guardia” della democrazia, ma rappresenta addirittura un pericolo per quest’ultima, potendo finanche incidere, mediante campagne di discredito della persona offesa rispetto all’opinione pubblica, su competizioni elettorali.
La Cassazione ricorda in proposito gli arresti della Corte Costituzionale.
“La Consulta ritiene destinato a riespandere il proprio ambito applicativo anche alle diffamazioni a mezzo stampa. Ed è proprio grazie alla norma codicistica in discorso — e alla possibilità ivi prevista che il Giudice applichi la pena detentiva (alternativa, nella disposizione in parola, a quella pecuniaria) allorché l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico — che il Giudice, trovando il punto di equilibrio tra la tutela della reputazione ed il diritto di informare, potrà applicare la reclusione.
Proprio la tutela della reputazione individuale, infatti, può, a determinate condizioni, escludere l’attrito con gli artt. 21 Cost. e 10 CEDU della previsione della pena detentiva per la diffamazione, rendendo recessiva, nello scrutinio sul trattamento sanzionatorio, la tutela della libertà di espressione dei giornalisti nell’esercizio del diritto di cronaca e di critica. La reputazione del singolo, infatti, è un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona, suscettibile di essere gravemente compromesso da aggressioni illegittime compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità cui si riferisce l’art. 595, terzo comma, cod. pen. che impattino sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica del soggetto aggredito. La Consulta ha espresso altresì la preoccupazione che tali danni possano essere «enormemente amplificati» dai moderni mezzi di comunicazione, suscettibili di perpetuare nel tempo gli attacchi diffamatori, sempre reperibili, anche a distanza di anni, sul web. Ed è, appunto, nel quadro del confronto tra questi due diritti che la Corte Costituzionale non ha escluso in assoluto la sanzione detentiva, «sempre che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica». Tali cautele si identificano nell’enucleazione dei casi nei quali le offese portate alla vittima possano qualificarsi come di “eccezionale gravità”, sì che la tutela del soggetto passivo della diffamazione acquisti una preminenza tale da rendere costituzionalmente e convenzionalmente compatibile la condanna al carcere per il reato di cui all’art. 595 cod. pen. Due sono le categorie che la Corte costituzionale ha isolato. L’una è direttamente ispirata alla giurisprudenza della Corte EDU, in parte già richiamata nell’ordinanza n. 132 (Corte EDU, grande camera, sentenza 17 dicembre 2004, Cumpànà e Mazà”re contro Romania, paragrafo 115; nonché sentenze 5 novembre 2020, Balaskas contro Grecia, paragrafo 61; 11 febbraio 2020, Atamanchuk contro Russia, paragrafo 67; 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia, paragrafo 59; 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia, paragrafo 53; 6 dicembre 2007, Katrami contro Grecia, paragrafo 39), ed individua, come meritevoli della pena detentiva, i discorsi d’odio e quelli che istighino alla violenza, quando veicolanti o veicolati da messaggi diffamatori. Le altre ipotesi attengono alle «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi». Quando l’attività di informazione conduca a trasmettere informazioni di tal fatta — sostiene la Corte — essa non costituisce il “cane da guardia” della democrazia, ma rappresenta addirittura un pericolo per quest’ultima, potendo finanche incidere, mediante campagne di discredito della persona offesa rispetto all’opinione pubblica, su competizioni elettorali. 3.4. Da tutto quanto sopra esposto, consegue, ai fini del delicato compito riservato alla Corte del rinvio, che quest’ultima, attuando un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata secondo la direttrice teorica segnata dall’intervento della Consulta, dovrà valutare se la condotta addebitata al ricorrente rientri nella nozione di eccezionale gravità del fatto di cui si è detto sopra; solo nel caso in cui questa verifica si concluda con esito positivo, all’imputato potrà essere conservata la pena detentiva, viceversa da espungere dal quadro sanzionatorio nel caso in cui il giudizio di inquadramento del fatto nella nozione anzidetta si concluda in senso negativo. Il compito del Giudice di merito è tanto più delicato e suggerisce il ricorso ai criteri sopra ricordati — ammonisce la Consulta allo scopo di evitare la pronuncia di condanne che potrebbero successivamente dar luogo a una responsabilità internazionale dello Stato italiano per violazioni della Convenzione.